Anche Google sostiene il patriarcato. Così il web e il mondo digitale peggiorano la vita delle donne: un articolo de La Stampa

Volentieri segnaliamo questo articolo pubblicato su La Stampa a firma di Elisa Forte, in merito alla ricerca di Lilia Giugni su come le tecnologie riproducano e diffondano idee e atteggiamenti sessisti della società che li produce.

La ricercatrice Lilia Giugni, dopo cinque anni di studio, racconta come le tecnologie escludano le donne tra sessismo e abusi

Se avete un pc a portata di mano provate a digitare “la donna deve…” e “l’uomo deve…”: se invertite le ricerche, il risultato non cambia. La funzione di auto-completamento di Google mette in azione l’algoritmo ed eccovi serviti. Queste frasi non sono neanche tra le più sessiste (e inaccettabili) che la ricerca restituisce: la donna deve essere sottomessa al marito, seguire il marito, obbedire all’uomo, deve cucinare, essere corteggiata, coprirsi il capo. Sul versante maschile: l’uomo deve fare l’uomo, proteggere la donna, mantenere la donna, dominare la natura, pagare la cena, fare il primo passo. «Allenato sulle ricerche precedenti dell’utenza, l’algoritmo di Google riproduce il sessismo di chi lo utilizza. Ma rischia anche di diffondere ulteriormente atteggiamenti patriarcali». Ne è convinta Lilia Giugni, napoletana che vive all’estero. Docente all’University College London e ricercatrice all’Università di Cambridge, attivista, co-fondatrice del think tank femminista GenPol – Gender & Policy Insights spiega – con dati alla mano – la sua tesi anche nel libro “La Rete non ci salverà”, edito da Longanesi, un lavoro inedito e attuale frutto di cinque anni di ricerche e di un lungo corso di impegno femminista.

L’algoritmo è sessista e il web – in alcuni casi – ha peggiorato la vita delle donne
«Le tecnologie digitali, algoritmiche o meno, di per sé non sono né buone né cattive, ma nemmeno possono dirsi neutrali, visto che incorporano nel loro funzionamento i valori e purtroppo anche le disuguaglianze delle società in cui sono prodotte» dice Giugni. I suoi studi riguardano il patriarcato 4.0, le ingiustizie algoritmiche, l’economia della violenza digitale, la pornografia non consensuale, le molestie e le minacce online. Giugni si interroga su cosa fanno le grandi piattaforme social per rimediare a questo tsunami di abusi. «Non intervengono come dovrebbero», precisa, senza mezzi termini. «In molti casi – aggiunge - gli abusi sono una conseguenza non solo dei comportamenti degli utenti, ma anche e soprattutto delle strategie economiche delle aziende tech, che puntano a massimizzare le interazioni anche a costo di sacrificare la nostra sicurezza».

La rivoluzione digitale è sessista?
«La tecnologia - sostiene Giugni - acutizza le ingiustizie di genere e il sistema economico ne sta approfittando. Basti pensare a come le piattaforme social monetizzano comportamenti digitali violenti, o al grande business della diffusione non consensuale di immagini intime sui siti pornografici». Alcuni dati: hanno subito aggressioni online più di un terzo delle donne del pianeta (The Economist). Quasi tre quarti delle vittime di violenza digitale censite sono arrivate a temere per la propria incolumità fisica, il 35 per cento ha riportato danni alla salute mentale, il 7 ha perso il lavoro o ha deciso di cambiarlo, perché in alcuni casi richiedeva una costanza presenza online. «Sono state recentemente censite 14mila ragazze sotto i 25 anni che utilizzano Facebook, il 40 per cento sono state minacciate e molestate. E va anche notato che sui social network risultano in genere più esposte le ragazze disabili, le donne ebree e musulmane, a prescindere dalla loro età», racconta Giugni.

Le cose non vanno meglio neanche dall’altra parte dello schermo
Ingegnere IT, influencer e altre lavoratrici del tech – secondo Giugni – sono o discriminate o sfruttate sul lavoro. Women Who Tech ha reso noto che su mille donne attive nella progettazione tecnologica, il 44 è oggetto di proposte sessuali non richieste, palpeggiamenti, offese verbali sul lavoro. In Italia nel 2021 We World ha stabilito che sette donne su 100 tra quelle censite sono state importunate sul lavoro. La studiosa pone attenzione anche «alla più ampia filiera di produzione del tech, anche quella intrisa di sfruttamento e violenze di genere» e racconta «le vessazioni cui sono sottoposte le operaie cinesi che assemblano i nostri smartphone e tablet, e le minatrici congolesi che estraggono minerali come il cobalto e il tantalio, essenziali per farli funzionare». C’è poi la piaga delle moderatrici dei contenuti (in maggioranza donne) costrette a visionare contenuti violenti e sessuali, senza alcun supporto psicologico.

Donne discriminate, invece, su Wikipedia: sono meno del 17 per cento le voci dedicate a personaggi femminili nonostante il suo funzionamento in modo collettivo. E il numero delle donne coinvolte nell’editing non supera il 20 per cento.

Misoginia online, abissali disparità di genere nell’accesso alle risorse tecnologiche, molestie e minacce online, pornografia non consensuale, informazioni personali condivise senza permesso: milioni di donne sono esposte – senza tutele - alla violenza digitale. Soluzioni? Giugni, ipotizza «riforme radicali quali l’accesso a Internet come diritto umano, con tutto ciò che ne consegue in termini di infrastrutture, formazione, diffusione capillare di strumenti tecnologici adeguati; i dati personali come bene comune, fuori da ogni logica di mercato e di profitto; l’istituzione di un reddito universale di base, che possa prevenire lo sfruttamento delle lavoratrici a tutti i livelli fornendo loro diritti e potere negoziale». «Potremmo aggiungere, di visione in visione – conclude- l’istituzione di una gestione pubblica e trasparente della stessa rete internet e la creazione di social network non commerciali, con regole restrittive per quelli privati».

L’articolo de La Stampa è consultabile a questo link.

Indietro
Indietro

Di calcio ma non solo

Avanti
Avanti

Dopo il 25 novembre: il comunicato stampa di Nondasola