Partire da sé per parlare al mondo del mondo: le parole di Kiranjit Kaur sul riconoscimento della cittadinanza

Volentieri condividiamo le parole di Kiranjit Kaur, una giovane donna che collabora con l’associazione Nondasola, sulla sua, finalmente riconosciuta, cittadinanza italiana. Le sue riflessioni ci sembrano un prezioso esempio del partire da sé per parlare al mondo del mondo.

“Redditae quae sunt Caesaris Caesari
Mi sento italiana
Pare che tra alcuni giorni lo sarò per davvero

Alla bambina che ha mangiato patatine croccanti e bevuto succo aspro, scoprendo solo dopo che erano ciccioli e lambrusco.

Così è avvenuto il mio battesimo da vegetariana ad emiliana.

Agli anni passati a lavorare i "cartellini" dispersa nel nulla in una stalla sul mantovano invece di andare a scuola; morta dentro una cucina un miliardo di volte vedendo gli altri giocare fuori dalla finestra e io no.

Alle mie maestre, professori e insegnanti che sono sopravvissuti alle mie continue domande asfissianti. Ma soprattutto, ai miei compagni e compagne di classe che con grande coraggio hanno sopportato la mia perenne mano alzata. Sono sempre stata una rompicoglioni però, ora, da adulta sono cambiata, giuro. Sono solo stronza, a volte.

Alla mia fase democristiana più cattolica dei cattolici stessi e a quella comunista da cui sono uscita perché ero l'unica ragazza ventenne figlia di un'operaia in mezzo a dei vecchi borghesi che volevano solo parlare e mai agire nei fatti per non sentirsi inutili e finalmente protagonisti in mondo in cui avevano fallito.

Alla fase femminista, alle manifestazioni, occupazioni di piazze e alle tremila ragazze, donne che ho conosciuto. A quanti diritti ci vengono negati ancora nel 2023 ed è subito continua lotta militante.

Ad un'adolescente che piangeva in un buco del culo del mondo, in una casa accoglienza in piena campagna dove ogni tanto ballava Beyoncé in cameretta perché era l'unica rappresentazione che le somigliasse o sentiva Fabri Fibra dalla camera della vicina, una punkettara degli anni '80. A quella ragazzina di 13 anni che prendeva su la bicicletta e si faceva 4 km per sparire dalle valli e arrivare a Novellara centro che corrispondeva ad una Milano all'epoca, a suonare il campanello alla casa della migliore amica a svegliare tutta la famiglia.

Alle estati passate al Grest, anche da educatrice e mi viene male a vedere i ragazzi cresciuti ora che erano dei nanerottoli allora. Ai venerdì in piscina, in cui ho imparato a nuotare e alle prime volte che vedendomi abbronzata mia madre mi ha buttato fuori casa come quando ho tagliato i capelli corti.

Ad un'amica che è sempre lì che ascolta tutte le mie menate, i problemi che ho con mia madre e dei ragazzi che passano e nessuno si ferma perché non glielo lascio fare. La verità è che ho una fottuta paura che qualcuno davvero si fermi e poi possa andarsene come ha fatto mio padre.

Alla fase liceale dove credo di aver raggiunto prima il picco di assimilazione totale della cultura italiana negando tutto quello che ero perché in fondo la mia non è mai stata di fatti solo integrazione. L'odio che ho provato per tutti i compagni, figli di papà, ricchi, che mi stavano sul cazzo già in partenza. Poi crescendo ho capito che ognuno di noi ha i suoi problemi purtroppo.

All'ira che ho provato quando ho capito il male e la violenza attuata dal colonialismo. E alla rabbia con cui poi ho recuperato la parte che avevo negato prima, quella indiana, sentendomi non so quale bis-nipote del post-colonialismo. Un biscotto che si sente latte, poi d'improvviso, si guarda allo specchio e scopre di essere né biscotto né latte e rimane deluso e afflitto a guardare la realtà in faccia.

A quella casa di periferia, sulla provinciale davanti ad una pompa di benzina, anni passati a masticare pianti nell'elefantino parcheggiata lì, unico vero rifugio dalle liti con mia madre.

A questo continuo dovermi spiegare per come sono una volta che esco dalla cerchia di persone che mi conoscono e ad andare piano ad aprirmi perché la gente non è abituata a non essere razzista, classista o paternalista. Specie quando si esce dal classico stereotipo che uno si aspetta.

Alla fase in cui ho pulito i cessi con un sorriso grande come una casa perché ero felice come una pasqua a diciotto anni e quella in cui ho fatto la lavapiatti e sono finita in depressione. E lì quando ti ritrovi adulto a lavorare per pagare le bollette, inizi a farti da solo certi discorsi su come forse una figlia di una donna migrante non avrebbe dovuto fare il classico e perdere tempo a tradurre versioni di greco o a fare teatro perché lo possono fare quelli che stanno bene e che hanno le spalle coperte. Che dover soddisfare i bisogni primari, non ti fa vivere davvero e apprezzare le cose belle della vita ma è solo pura sopravvivenza. Insomma essere donna è difficile ma essere povera, è peggio.

Alla fase in cui ho scoperto il mare e non potevo credere che esistesse un lavoro del genere, troppo grande, troppo infinito. Ed è stato così che ho deciso di fare una delle cose che amo di più al mondo: nuotare.

Alla fase in cui ho ottenuto il lavoro da insegnante a scuola con la Mad e vaccamerda mi mancano, nemmeno le competenze ma il primo requisito che serve per lavorare nel settore pubblico: la cittadinanza italiana.

Alle file in questura, al sindacato, alle poste, in banca a pagare non so quali bollettini per fare il permesso di soggiorno poi la carta di soggiorno e la valanga di soldi spesi per essere cittadina italiana.

Alla mediazione culturale che ho fatto fin da bambina senza nemmeno rendermene conto e che faccio tutt'ora perché mi fa stare bene aiutare qualcuno a capire qualcosa che non ha capito.

A quanto dovrò crescere perché so di essere una deficiente che non vuole affrontare certe cose perché ha paura e che non sa perdonare se stessa.

Alle feste dell'unità, ai primi ascolti di Gaber, ai cantautori degli anni '70 italiani e la Carrà, al ridere a vedere i vecchi che ballano il liscio e provare a ballarlo in pista con serietà, alla musica indie, al canto fatto con canzoni di Mina, a quel concerto dei Cani, e a quelli che sono venuti dopo, di cui ricordo il sudore, il pogo, la voglia di spaccarsi in mille pezzi, le prime volte in discoteca, nei locali, ai coriandoli kabuki alla fine di ogni concerto de Lo stato sociale.

Al teatro dialettale fatto d'estate davanti ai dei vec in un circolo ricreativo con dei tuoi coetanei e a quanto era buono quel gnocco fritto mangiato dopo.

Al culo che ho avuto ad essere emigrata in Emilia, sia lodato chiunque l'abbia creata, i caplet, i tutlein, le lasagne, lo stracotto, i salumi, la mortadella, i ciccioli, il tiramisù e potrei continuare all'infinito finendo dritta alle terme del colesterolo.

Alle mie amiche e amici quelli che ci sono stati e a quelli che ci sono sempre per far balotta e ubriacarsi per alleggerirsi quando il mondo è peso e quando a volte è una merda e loro sono pronti a spalarla per te.

Alla vita di provincia, che non conosce chi vive in città, a morire di noia, di zanzare, di nebbia d'inverno e d'umidità d'estate, di vecchi seduti al bar, del tempo che sembra non passare mai.

Ai volontari, operatrici e a tutte le persone che ho incontrato in questo percorso che ci hanno aiutato e accolto. E alle altre persone che ho avuto la fortuna di conoscere negli anni, insomma, a chiunque sia stato gentile con me, con noi almeno una volta.

Grazie

PS. Finalmente potrò votareee”

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